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Licenziamento per offese sui social

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ph: Blogtrepreneur, lic. cc.

Legittimo il licenziamento del dipendente che offende l’azienda su Facebook

La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 27939 del 13 ottobre 2021, ha respinto il ricorso presentato dal lavoratore, licenziato per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook alcuni post in cui offendeva gravemente i suoi diretti superiori in azienda nonché gli stessi vertici aziendali. 

Licenziamento per giusta causa

Ai sensi dell’articolo 2119 c.c. “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, la giusta causa si sostanzia in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro (Cass. 24/7/03, n. 11516).

 Il licenziamento per giusta causa può, quindi, presentarsi per:

  • insubordinazione;
  • violazione del patto di non concorrenza;
  • scorretto uso dei permessi;
  • falsa malattia o infortunio;
  • rifiuto del dipendente di ritornare al lavoro dopo il periodo di malattia;
  • furto all’interno dell’ambiente lavorativo;
  • condotta del dipendente tenuta al di fuori del lavoro tale da ledere il rapporto di fiducia tra l’azienda e lo stesso dipendente.

In caso di licenziamento illegittimo sarà possibile impugnare l’atto per richiedere un indennizzo o il reintegro in azienda.

Diffamazione a mezzo social

Tornando al caso che ci interessa, apprendiamo come, il lavoratore, in seguito al licenziamento intimatogli, presentava ricorso.

Tra i motivi del ricorso il lavoratore adduceva la violazione e falsa applicazione dell’articolo 15 Costituzione, il quale tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza, l’articolo 2697 c.c., anche in relazione all’articolo 595 c.p. (diffamazione).

Il ricorrente sosteneva come “la società datrice avesse illegittimamente acquisito i post presenti sulla pagina riferibile al proprio profilo social, dal momento che tali messaggi avrebbero dovuto ritenersi destinati esclusivamente ai propri amici e, dunque, da considerarsi riservata e quindi incompatibile con la denigrazione e/o diffamazione del datore di lavoro”.

Ormai risulta pacifico come il reato di diffamazione possa configurarsi anche quando il contenuto diffamatorio venga diffuso attraverso l’utilizzo dei social networks, anzi, tale condotta costituisce un’aggravante della fattispecie.

Ci siamo già occupati della possibilità di rispondere del reato di diffamazione tramite l’utilizzo dei social network, sul nostro blog, infatti, potrete trovare un articolo sulla diffamazione tramite l’utilizzo di WhatsApp per approfondire meglio la questione.

In questa sede ricordiamo brevemente come la Cassazione si sia già espressa sulla possibilità, per le modalità della pubblicazione, di realizzazione del reato di diffamazione a mezzo social, data l’idoneità del messaggio offensivo di raggiungere un numero potenzialmente indeterminato di destinatari.

Nel caso di specie secondo la Cassazione “premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata – in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone – nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso da Facebook.”

L’insubordinazione

Ancora, con il proprio ricorso, il ricorrente contesta la qualificazione del proprio comportamento in termini di grave insubordinazione.

Ai sensi dell’articolo 2104 c.c. il prestatore di lavoro deve usare “la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”.

Il dipendente, dunque, deve rispettare le direttive e le indicazioni fornite dall’azienda per il tramite dei superiori gerarchici e deve svolgere le prestazioni richieste con la diligenza propria delle attività lavorative svolte.

Il mancato rispetto di tali direttive datoriali costituisce un inadempimento che prende appunto il nome di insubordinazione.

Giurisprudenza

Secondo l’orientamento prevalente (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e Cass. 19 aprile 2018, n. 9736) “la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale”.

Secondo la Cassazione n. 9635/16, inoltre, è ammissibile che l’insubordinazione possa ravvisarsi “nella critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli”.

Anche sotto questo aspetto la Corte ritiene quindi l’obiezione infondata ritenendo come tali dichiarazioni integrerebbero insubordinazione grave e giusta causa di licenziamento in ragione dell’idoneità delle stesse a precludere “la perseguibilità del rapporto, per l’elisione del legame di fiducia tra le parti, anche considerato il ruolo aziendale del predetto addetto”.

Conclusioni

La sopra richiamata sentenza della Cassazione sottolinea l’orientamento costante della Suprema Corte in merito alla valutazione dei social network come mezzo idoneo per la consumazione del reato di diffamazione e come questo possa legittimamente giustificare un licenziamento.

E’ innegabile, infatti, come il progresso tecnologico abbia portato alla creazione di nuove fattispecie giuridicamente rilevanti.

Per ulteriori chiarimenti contatta l’ Avv. Andrea Sardo dello studio legale Lexinto.

Articolo a cura della Dott.ssa Diletta Lopes.